Golf e Turismo
Sono 25 milioni i turisti con la sacca
Dividono le loro vacanze tra la spiaggia e il campo di golf. E, in tutto il mondo, muovono un fatturato di 40 miliardi di dollari. Quest’anno si pensa che in Italia saranno un milione i green fee pagati dai villeggianti.
C’è un numero che negli ultimi tempi sta facendo gola a molti: 25 milioni. Sono tanti infatti i golfisti che in media ogni anno partono con drive e ferri, alla ricerca di nuove destinazioni a 18 buche.
Questo imponente movimento turistico genera annualmente un fatturato mondiale pari a 40 miliardi di dollari. Come se non bastasse, il comparto legato ai viaggi di golf, a differenza di altri, sembra non conoscere la parola “crisi”, anzi cresce con l’invidiabile ritmo dell’8% annuo.
Considerando poi che un golfista, quando parte, ha una presenza media in albergo di sette giorni contro i tre/quattro dei turisti normali e che promette una spesa pro-capite tre volte superiore rispetto agli altri, è facile intuire perché da qualche tempo il fenomeno dei viaggi golfistici stia interessando anche paesi che storicamente, politicamente e filosoficamente sono sempre stati “ostili” al green.
Su tutti Cuba, dove l’attuale crisi economica ha costretto la politica a fare i conti: Raul Castro ha intuito che sole, tramonti e spiagge non bastavano più a far lievitare il flusso di visitatori che sull’isola si attesta su 2,4 milioni di viaggiatori ogni anno.
Di qui la svolta: José Marrero, ministro cubano del turismo, ha infatti recentemente dichiarato il golf “asset strategico del governo”.
La società canadese Standing Feather International, con la Graham Cooke & Associates di Montreal, ha immediatamente presentato a Castro un progetto del valore di 1,5 miliardi di dollari, che prevede la costruzione di due campi a 18 buche, una club house, un hotel a cinque stelle, un centro commerciale e 200 appartamenti e ville, che per la prima volta nella storia potranno essere acquistati anche da stranieri.
Morale: sulla costa nord orientale dell’isola, a Playa Guardalavaca, stanno per aprire gli immensi cantieri canadesi, naturalmente in joint venture con il gruppo governativo Extrahotelero Palmares. E già, perché le rivoluzioni culturali a Cuba si fanno fino a un certo punto, visto che i profitti derivanti da qualsiasi operazione legata al green saranno da spartire al 50% col governo dell’isola. Diversa la situazione in Cina, dove il movimento golfistico è decisamente più avviato che a Cuba, ma dove, almeno in apparenza, la politica continua a prendere le distanze dal boom delle 18 buche, considerate addirittura “illegali”. Ma si sa: se nella terra dell’Impero di Mezzo nulla è permesso, tutto in realtà diventa possibile. Soprattutto se nel frattempo il golf è stato promosso a disciplina olimpica, ingigantendo così l’interesse (e la corruzione) da parte dei funzionari pubblici nei confronti del mondo del green. E dunque, se nel 1984 esisteva un solo percorso, oggi se ne sono aggiunti circa 400 e altri 500 sarebbero in fase di progetto o già in costruzione.
Di questi, una trentina sarebbero previsti sull’isola di Hainan, il cui clima tropicale e il futuro numero illimitato di buche promuoverebbero, almeno nei piani del premier Wen Jiabao, un gigantesco afflusso di turisti/golfisti.
“Va sottolineato però – ci racconta Carlo Martin di Absolute Golf – che per ora il movimento di viaggiatori legato al golf in Cina è un fatto puramente nazionale, nel senso che sono soprattutto gli stessi cinesi a spostarsi dal nord al sud del paese alla ricerca di nuovi campi. In verità, manca ancora la presenza di un turismo internazionale, mentre sta nascendo quello asiatico”.
Ma le stime (poco veritiere) snocciolate dalla China Golf Association, che indicano in tre milioni il numero dei golfisti praticanti del Paese e una crescita annua del 10%, evidentemente per ora permetterebbero un sereno disinteresse verso l’arrivo del turismo estero. Diverso il discorso per i Paesi europei, tra i quali la Spagna (dove l’industria legata alle buche genera un giro di affari di 4,2 miliardi di euro all’anno), che appare come il leader del comparto turistico-golfistico continentale.
In particolare è l’Andalucia, con le sue calde temperature, la regione iberica con la maggior vocazione a 18 buche: qui sono presenti 132 percorsi e di questi ben 59 sono nei pressi di Malaga. Su queste buche, ogni anno vengono giocati 2 milioni di giri di golf e di questi il 76% è effettuato da stranieri, che mediamente spendono 246 euro al giorno.
Indirettamente o direttamente, il giro d’affari generato annualmente dal turismo legato al golf, oltre a garantire circa 7000 posti di posti di lavoro, porta dunque nelle casse della regione oltre 522 milioni di euro.
A causa della stagione turistica più breve, è invece di “solo” 319 milioni di euro l’impatto economico annuale dei viaggi legati al green nella “House of Golf”, ovvero in Scozia, dove per il 2020 le cifre sono date in rialzo addirittura del 30% .
Tra i 540 percorsi della zona, l’Old Course vanta ben 44mila visitatori annui, mentre altri 200 mila sono sparsi tra le buche degli altri sei percorsi del St. Andrews Links Trust.
Tra questi va forte il recente The Castle, che nei primi sei mesi di attività ha fatto già segnare oltre 20 mila presenze. E non è finita: secondo una ricerca del National Golf Tourism Monitor, nella stagione compresa tra maggio e settembre i green fee hanno un impatto medio mensile di 50 mila euro per club.
Ma sono soprattutto i grandi eventi a calamitare frotte di appassionati sui green scozzesi: l’Open Championship del 2010, per esempio, ha arricchito le casse della regione di ben 145 milioni di euro, 30 in più rispetto a ogni rosea aspettativa. E, stando alle stime della BBC, altrettanti sarebbero previsti per la settimana della Ryder Cup 2014, che si disputerà a Gleneagles.
Ha avuto dunque la vista lunga il magnate americano Donald Trump, che ha investito sulle dune del litorale di Aberdeen la solida cifra di un miliardo di dollari per costruire lì il suo mega resort, il Trump International Golf Links, la cui apertura sarebbe prevista per il 2012.
E in Italia? Due studi recenti hanno cercato di quantificare il prodotto golf nello Stivale: il primo stima in 350 milioni di euro annui l’introito diretto del golf, cioè il fatturato prodotto unicamente dalle attività dei circoli; il secondo sostiene che nel 2011 i green fee legati al turismo del golf supereranno il milione, generando un fatturato pari a 295 milioni di euro. Questa ricchezza in parte è dovuta alle nuove destinazioni sorte soprattutto nel Sud, dove, seppur in ritardo rispetto al resto del Paese, la politica sembra aver finalmente intuito la valenza economico-turistica del green.
In Sicilia, per esempio, fino a qualche anno fa c’erano solo le 18 buche del Picciolo Golf Club. Oggi l’isola si sta proponendo sul mercato turistico nazionale e internazionale come nuova meta golfistica, grazie alla realizzazione di nuovi cinque percorsi, a cui nel 2012 se ne aggiungeranno altri tre.
Il fermento siciliano sul green esplode nel 2008, quando la Regione promuove la Legge Quadro n.11, che di fatto semplifica al massimo i passaggi autorizzativi per la costruzione di impianti di golf.
La legge, sostanzialmente, chiarisce che tutte le iniziative legate al green (percorsi e strutture per l’ospitalità) non sono da considerarsi attività edilizia e quindi vanno in deroga alle norme troppo restrittive dei progetti insediativi abituali.
E’ lo slancio decisivo per l’ultimazione delle 36 buche di Verdura Golf e le 36 del Donnafugata Resort, inaugurate nel luglio 2010. Proprio quest’ultima sede, grazie anche al piano triennale di investimento di 5,5 milioni di euro da parte della Regione, è stata teatro del recente Sicilian Open, trasmesso in 50 Paesi attraverso 40 diverse emittenti televisive. Il risultato è stato pubblicizzare nelle case di 300 milioni di persone le immagini del golf in Sicilia. Purtroppo, l’offerta turistica dell’isola come nuova meta del green è ancora troppo giovane per poter offrire agli analisti dei numeri che non siano quelli poco indicativi dello start up, anche se al Donnafugata Resort hanno già le idee chiare: “Entro il 2015 – ci spiega Marco de Rossi, amministratore delegato del Resort – puntiamo a ospitare 20mila golfisti all’anno, che significherebbe creare un indotto di circa 10 milioni di euro. Questa ricchezza poi si distribuirebbe per un raggio di 20 km dall’hotel”. E un primo segnale di un sistema che sta già girando a tutta forza è nei prezzi dei ristoranti della zona che si sono alzati di un buon 50%.
Non si lamentano della stagione neppure al golf del San Domenico, in Puglia, dove la direttrice Monica Cosenza ci spiega: “Annualmente vendiamo circa 12mila green fee e, nonostante il perdurare della crisi economica, da gennaio 2011 abbiamo visto crescere l’arrivo di turisti stranieri, soprattutto inglesi e tedeschi”.
Le cose si stanno muovendo anche in Sardegna: qualche mese fa, infatti, sotto la spinta della Confindustria del Nord dell’isola, ben 15 gruppi aziendali sardi con progetti propri e/o con partner nazionali si sono organizzati nel cosiddetto Consorzio Golf. Scopo dell’iniziativa è favorire in Sardegna la creazione di una filiera di campi, sulla base dell’approvazione della proposta di legge regionale n. 83, la cosiddetta “Provvidenza per lo Sviluppo del Turismo Golfistico”.
Oggi il Consorzio ha nel suo portafoglio circa 20 progetti, tra nuovi campi e semplici ampliamenti, tutti però connotati da un minimo di 18 buche. L’investimento previsto è di circa 2 miliardi di euro, interamente finanziato da privati.
Cavalcare l’onda lunga dell’entusiasmo per i golf italiani e nel contempo aumentare ulteriormente i numeri è decisamente la sfida per gli anni a venire. Già, ma come? Secondo Francesco Giovinazzi, direttore di uno dei golf resort italiani con maggiore esperienza, quel Riva dei Tessali che nel 2010 ha staccato ben 15 mila green fee, “bisognerebbe innanzitutto avere una maggiore e più incisiva presenza italiana nelle fiere del settore, come da anni fanno la Spagna, il Marocco, la Tunisia ecc. Quindi sarebbe necessario strutturare il traffico aereo, tenendo conto dell’incoming in modo costruttivo, indirizzando cioè i flussi turistici dove si vogliono indirizzare e non dove le compagnie aeree vogliono atterrare”.
Ma tutto questo probabilmente non basterà, perché l’Italia purtroppo non offre ancora prezzi concorrenziali rispetto agli altri paesi del Mediterraneo con la vocazione delle 18 buche, come per esempio la Spagna, il Marocco o il Portogallo.
Per conquistare dunque ulteriori fette di quel mercato turistico/golfistico a cui da qualche tempo sta finalmente puntando, lo Stivale dovrà con ogni probabilità specializzarsi nella creazione di un prodotto “tailor made” e “up level”. In fondo, come nella migliore tradizione italiana.
Isabella Calogero